L’arte italiana del
Novecento
L'EPITAPHION DELL'ARAZZERIA
Nella maggior parte delle storie
dell'arte arazziera in Italia la ricostruzione delle vicende si interrompe
intorno alla prima metà del XIX secolo: un limite che non si spiega
unicamente con esigenze di periodizzazione, ma anche con la diffusa
convinzione che a quell'epoca l'arazzo, inteso come opera a carattere
narrativo e monumentale, avesse esaurito la propria fortuna.
I tempi e le circostanze della
chiusura delle ultime arazzerie nazionali potrebbero avallare la fondatezza
di questa opinione: infatti, ad eccezione della fabbrica pontificia di San
Michele a Ripa che, dopo l'Unità, proseguì per volontà governativa una
stentata produzione fino al 1910, le altre principali manifatture, a Napoli
e a Torino, furono chiuse, rispettivamente, nel 1'798 e nel 1813. La
cessazione dell'attività di queste come di altre arazzerie non giungeva a
conclusione di un'esistenza facile, giacché anche in periodi precedenti,
nonostante il pregio dei molti lavori che erano passati per i telai nel
corso dei secoli, la loro sopravvivenza era stata incerta e fragile, spesso
legata alle fortune dei committenti e sostenuta soprattutto da ciò che
Mercedes Viale Ferrero ha definito «una passione ostinata».
Se in Italia
nell'Ottocento l'arazzo era in una situazione particolarmente critica, anche
nelle altre nazioni europee non sembrava godere di una migliore fortuna: «La
tapisserie est un art perdu. Ce n'est qu'une laborieuse imitation terne et
noire de la peinture», scriveva Edmond de Concourt nelle pagine del
«Journal» nel 1874. Queste parole di Goncourt, estimatore e
conoscitore di arazzi, esprimono l'opinione, condivisa da molti critici, che
alla base della decadenza dell'arte dei panni tessuti ci fosse, a causa
della eccessiva dipendenza dalla pittura, la perdita dei caratteri che le
erano propri.
Questo fenomeno si accentuò
particolarmente durante il XIX secolo quando, per rendere gli effetti di
sfumatura e per descrivere minuziosamente e fedelmente i dettagli dei
dipinti ad olio, ormai divenuti il modello da imitare, nell'esecuzione degli
arazzi si giunse ad usare un numero elevato di fili di ordito per centimetro
e una quantità esorbitante di tonalità cromatiche nei fili di trama. Spesso,
inoltre, la spiegazione dei motivi della decadenza veniva accompagnata
dall'invito ad aggiornare i modelli, al fine di abbandonare la routine delle
repliche di antichi dipinti o di arazzi. Tuttavia il coincidere della
chiusura della manifattura napoletana con la fuga del re Ferdinando I di
Borbone segnala come il destino dell'arazzo fosse anche legato a quello di
un ceto sociale che stava per perdere l'egemonia nella gestione del potere.
L'immagine dei panni dati al rogo dai rivoluzionari francesi allo scopo di
recuperarne i filamenti d'oro, ma soprattutto per distruggere i vessilli
dell'aristocrazia, è la metafora visiva della fine di una funzione degli
arazzi: quella di esibire il prestigio di una classe egemone.
Esaurita questa funzione ad alcuni
critici sembrò che l'arazzo non avesse più ragione di esistere: Ilaria
Toesca, ad esempio, commentando un'esposizione di arazzi francesi tenutasi
nel 1953, scriveva che l'unica finalità del moderno «Arazzo nero» di
Pothier, esposto in quell'occasione, poteva dirsi quella di «sontuosa
coperta funebre, "epitaphion" dell'arazzeria»'.
LA PASSIONE OSTINATA
Fino al XVIII secolo gli arazzi
avevano decorato con magnificenza gli interni di chiese e palazzi, avevano
esibito pubblicamente il fasto dell'aristocrazia e la gloria del
cristianesimo ma soprattutto avevano narrato con magnificenza le vicende
degli eroi e dei santi. Successivamente, con la Restaurazione, ci fu uno
stanco tentativo di ripresa, ma è innegabile che, alla fine del XIX secolo
l'arazzo fosse, come sostiene Viale Ferrero, «quasi affatto privo di
vitalità», e che il suo risveglio si sarebbe avuto «soltanto nel XX secolo,
in un clima artistico ben diverso, e avrebbe coinciso con 1'affermazione di
ideali artistici affatto nuovi, e, non occorre dirlo, opposti a quelli
dell'Italia umbertina».
In questo nuovo clima artistico,
lontano dalle Accademie, i pittori abbandonavano i vecchi generi, come
quello della narrazione storica, per rivolgersi a temi meno illustri, più
intimi e quotidiani. Il ruolo che si stava definendo per i pittori era
caratterizzato da una maggiore libertà espressiva ed era legato da nuovi
vincoli ad un nuovo pubblico, con una trasformazione che sembrava
allontanare il destino degli artisti moderni da quello dei panni tessuti.
Oltre a ciò il rapporto tra arazzo e pittura parve diventare ancora più
problematico quando, con il progressivo abbandono della rappresentazione
mimetica della realtà, molti critici, in base alla convinzione che un
tessuto murale potesse essere solo un'opera monumentale a contenuto
narrativo, esclusero la possibilità di considerare «veri arazzi» dei lavori
tratti da dipinti non figurativi.
Ma il rigore delle definizioni si
scontra, inevitabilmente, con la realtà dei mutamenti delle forme e delle
tecniche, oltre che con le esigenze della cultura di ciascun periodo.
Perciò, nonostante fossero venuti a mancare alcuni dei fattori che avevano
incentivato in passato la produzione di arazzi, non era scomparsa la
«passione ostinata», il gusto per le caratteristiche éspressive della
tecnica e dei materiali. Le opere realizzate durante il secolo da poco tra
scorso, lavori disegnati da artisti di diversa provenienza e formazione,
stanno a testimoniarlo. Lo testimoniano, oggi, i lavori ad alto liccio ‑ la
stessa tecnica con cui nella seconda metà del Trecento Nicolas Bataille
realizzò l'Apocalisse di Angers, eseguiti dall'arazzeria di Asti per Renzo
Piano, in occasione della retrospettiva dei progetti dell'architetto
genovese tenutasi nel 1997 a Bonn.
Per comprendere quale sia stata
l'evoluzione dell'arazzo nel Novecento in Italia sarebbe necessario uno
studio approfondito sulla sua storia. Di questa storia le pagine seguenti
presentano solo alcuni spunti, frammenti di un quadro ampio e variegato,
rappresentativo degli umori della cultura italiana del XX secolo e di alcune
delle esperienze artistiche che l'hanno caratterizzata.
IL RINNOVAMENTO DELL'ARAZZO
Tra la seconda metà dell'Ottocento e
i primi decenni del Novecento si diffuse tra diversi gruppi e movimenti
artistici europei un rinnovato interesse per il Medioevo: la figurazione e
le realizzazioni artigianali di questo periodo ispirarono sia i simbolisti
francesi che gli esponenti del movimento Arts and Crafts, sollecitando in
Ranson, Bernard, Maillol, come in Morris e Burne-Jones, la passione per
l'arte arazziera. Aristide Maillol, ad esempio, guardando agli arazzi della
«Dame à la licorne» nel museo Cluny di Parigi, aveva dipinto soggetti per
l'esecuzione di pannelli ad ago, componendo le figurazioni a zone di tinte
piatte, le stesse forme adottate nella pittura dei Nabis. In Italia le
suggestioni moderniste, adattate a modelli nazionali, alimentarono nel conte
Nicola Marcelli il desiderio di far rivivere la fama delle arazzerie
medicee. Intorno al primo decennio del Novecento egli allestì a Firenze un
laboratorio in cui i temi del rivisitato «dolce stilnovo» scene dal
Decameron di Boccaccio e dalla Vita Nova dantesca venivano
narrati attraverso l'intreccio dei fili di seta e di lana; ma, come in altri
casi, questo tentativo ebbe breve durata e dopo pochi anni la Marcelliana
dovette chiudere.
UGO SCASSA CON CORRADO CAGLI, MILANO 1965
In Italia però, come in
Francia, nel Novecento l'interesse per 1'arazzo trovò nuove strade, anche
attraverso i lavori ad ago che molti artisti fecero eseguire in laboratori
più o meno specializzati. Tra gli anni venti e trenta, alle Biennali di
Monza (diventate dal 1927 Triennali di Milano) e alle Biennali di Venezia
vennero presentati al pubblico pannelli ricamati su disegni di Vittorio
Zecchin e Marcello Nizzoli, di Duilio Cambelotti e Francesco dal Pozzo.
Attraverso i lavori di questi e di altri artisti si introduceva una
dimensione più privata, borghese, in un ambito nel quale era viva
soprattutto la memoria dell'aspetto monumentale e sociale. E questa una
direzione particolare, meno istituzionale, lontana dalle esigenze del
racconto e più prossima al piacere della materia e al desiderio di
decorazione: dimenticando la ricchezza descrittiva e compositiva degli
esempi antichi l'arazzo si accostava alle nuove forme della realtà mutata
della pittura. Da questo punto di vista una svolta fondamentale venne con la
proposta di «Ricostruzione futurista dell'universo» di Balla e Depero e con
l'attività degli esponenti del movimento futurista nelle «Case d'Arte».
Anche in questo caso più numerosi degli esempi eseguiti a telaio furono i
lavori ad ago e le tarsie di panno colorato: notevole fu la produzione di
questi ultimi, ad esempio, nelle «Case d'Arte» di Depero a Rovereto e di
Corona a Palermo. Come le composizioni ricamate, queste realizzazioni non si
collocano nei termini specifici della lavorazione arazziera, ma sono,
assieme alle altre produzioni artigianali futuriste, la dimostrazione
dell'apertura di quegli artisti verso una pluralità di esperienze che
miravano alla trasformazione dell'ambiente, portando 1'arte oltre il confine
della cornice, ad invadere lo spazio della vita. L'intenzione di una parte
dei futuristi fu di portare l'arte non solo nella vita individuale, ma anche
e soprattutto in quella collettiva: nei programmi delle «Case d'Arte» essi
condannarono l'individualismo eccessivo che fino ad allora aveva
caratterizzato l'espressione artistica e sostennero che l'unica ragione di
esistenza dell'arte risiedeva nel suo valore sociale, affermando la
necessità di un ritorno alla decorazione, ai «suoi scambi tra artista e
mestiere».
ARAZZI E MURALISMO
Negli anni venti, contemporaneamente
all'attività delle ultime «Case d'Arte» futuriste, solo l'arazzeria Eroli di
Roma manteneva presente in Italia l'attività produttiva di pannelli tessuti.
Pio e Silvio Eroli avevano ereditato dal padre Erulo il laboratorio di via
del Babuino, aperto originariamente nel 18 8ò come studio di pittura. Qui lo
stesso Erulo aveva poi avviato la produzione di arazzi avvalendosi della
mallo d'opera delle ex allieve dell'istituto romano di San Michele a Ripa,
scuola in cui egli aveva insegnato. L'attività degli Eroli, che seguiva «un
orientamento strettamente figurativo e poco incline alle sperimentazioni»,
nel periodo compreso tra gli anni trenta e quaranta si indirizzò soprattutto
verso realizzazioni di carattere monumentale e istituzionale. A loro spettò
la laboriosa realizzazione degli arazzi per il Ministero delle Corporazioni:
sette pannelli, su cartoni di Ferruccio Ferrazzi, eseguiti per il palazzo
progettato dagli architetti Piacentini e Vaccaro intorno alla prima metà
degli anni trenta.
La scelta muralista, che aveva
coinvolto molti artisti sia in Europa che oltreoceano, in Italia si
manifestò raramente attraverso gli arazzi: il forte richiamo dell'arte
italiana del passato orientava i pittori prevalentemente verso la
tradizione mediterranea dell'affresco e del mosaico. Nel caso dell'affresco,
inoltre, i pittori potevano operare direttamente, senza ricorrere
all'intervento e alla interpretazione di maestranze specializzate,
affermando quella che Cagli definì «l'ansia comune di vivere una vita
operosa, anzi operaia». Tra le motivazioni che spinsero gli artisti in
questa direzione vi fu la necessità di riallacciare un rapporto con la
società, per ritrovare un ruolo sentito come perso. Queste esigenze vennero
ribadite da Campigli, Carrà, Funi e Sironi, nel Manifesto della pittura
murale del 1933, e da Cagli, che nello stesso anno pubblicò su
«Quadrante» l'articolo Mari ai Pittori. Queste prese di posizione,
come altri segnali, si inserivano nella direzione, avviata secondo Sironi
con il Futurismo e il Cubismo, di una contrapposizione alla
«rappresentazione naturalistica ottocentesca» intesa come nucleo emblematico
della pittura da cavalletto.
LA «SINTESI DELLE ARTI»
In diversi momenti del Novecento si
fece strada negli ambienti artistici l'aspirazione a superare la
tradizionale separazione tra le «arti maggiori», in alcuni casi mettendo in
discussione il primato della pittura da cavalletto e portando ad una
apertura verso le arti applicate. Questa aspirazione coinvolse direttamente
sia artisti che architetti e li spinse a confrontarsi in un dialogo intenso.
Uno dei momenti di approfondimento di questo tema fu il convegno Volta
dedicato ai «Rapporti dell'architettura con le arti figurative», tenutosi a
Roma nel 1936: occasione di incontro per importanti figure
dell'architéttura e dell'arte nazionale e internazionale tra cui Ponti,
Bontempelli, Prampolini, Sironi e, tra gli stranieri, Gropius e Le Corbusier.
Ma chi in Italia più di ogni altro
si adoperò concretamente per la rivalutazione delle arti applicate fu senza
dubbio Gio Ponti che, dalle pagine di «Domus», condusse la sua lunga
battaglia per una più alta considerazione del loro valore e per
l'affermazione di uno stile decorativo italiano moderno. Di grande rilievo è
un suo articolo dedicato all'arazzo, pubblicato su «Domus» nel 1936
in occasione di una serie di interventi sulle diverse tecniche di produzione
delle arti decorative, in cui si affermava la necessità del rinnovamento e
della ripresa produttiva dell'arte arazziera. Negli arazzi l'architetto
milanese vedeva un'interessante alternativa agli affreschi sulle pareti
delle case moderne, che «non sempre meritano il dono di opere preziose e
inamovibili» e possono fregiarsi in questo modo di «una nota decorativa di
signorile raffinatezza». Fondamentale fu la presenza di Ponti anche all'interno della Triennale di Milano: crocevia di idee e di persone, le esposizioni organizzate da questa istituzione furono un'occasione di confronto per molti pittori, architetti e artigiani, come Pulitzer e Ponti, Cernigoj, Rosso e Fondra, i quali si trovarono ad esporre o a lavorare insieme nelle sale dell'edificio progettato da Muzzio.
GIUSEPPE UNGARETTI IN VISITA ALL'ARAZZERIA, 1968
In quel periodo, soprattutto in ambiente milanese, il dibattito
sull'integrazione tra le discipline si intensificò, e la collaborazione tra
artisti e architetti portò a degli esiti originali. Fontana, Melotti, Dova,
Crippa, tra gli altri, intervennero con loro lavori negli edifici progettati
da architetti come Marco Zanuso, Melchiorre Bega, Roberto Menghi. In questo
contesto va sottolineata la collaborazione di Corrado Cagli con Zanuso,
autore di un progetto per un immobile di appartamenti per il quale l'artista
marchigiano ideò la decorazione dei pannelli in alluminio di rivestimento
della facciata.
In Italia un ruolo preminente
nell'elaborazione della «sintesi delle arti» fu svolto dal MAC (Movimento
Arte Concreta, raggruppamento artistico che portò un contributo
significativo al tentativo di abbattere i confini tra le arti e le tecniche.
Nel 1955 il MAC organizzò a Milano, presso la galleria del Fiore, una mostra
dal titolo «Esperimenti di sintesi delle arti», in occasione della quale
venne annunciata la fusione con il gruppo francese Espace, legato tramite la
rivista «L'architecture d'aujourd'hui» sia a Bloc che a Le Corbusier. Questa
unione sancì il radicale allontanamento dalla pittura da cavalletto e
l'accresciuta tensione verso l'unità delle arti, dichiarati esplicitamente
da Jean Gorin nel 1956 quando, in una lettera aperta intitolata La
sintesi delle arti è possibile, definì i membri del gruppo Espace
come «tutti coloro che desideravano evadere dal quadro di cavalletto». Tra gli
iscritti al MAc troviamo anche Amedeo Luccichenti, l'architetto che con
Vincenzo Monaco progetterà nel 196o gli interrii del transatlantico Leonardo
da Vinci. Nel 1953 questi, insieme a Monaco e Adalberto Libera, nel
progettare l'allestimento per l'Esposizione dell'Agricoltura a Roma, definì
lo spazio e il carattere di quegli ambienti con il concorso di sculture di
Cascella e di dipinti murali di Cagli, Corpora e Scordia.
VERSO UNA NUOVA PRODUZIONE ARAZZIERA
IN ITALIA
Tra le condizioni per una concreta
ripresa della produzione arazziera in Italia un importante elemento fu la
serie di mostre di arazzi francesi organizzate durante il corso degli anni
cinquanta, che sollecitò l'interesse di critici, artisti e istituzioni. Nel
1953 a Roma, a Venezia e a Napoli fu allestita la mostra «Arazzi francesi
dal medioevo ai nostri giorni», in cui vennero esposti esempi dell'arazzeria
francese attraverso i secoli. Tra i principali intenti di questa
mostra vi era quello, dichiarato dagli organizzatori, di dimostrare la
continuità della grande arazzeria francese, evidenziando l'importanza del
rinnovamento condotto e soste liuto da Lurçat e dal gruppo dei «peintres
cartonniers».
Oltre a suscitare interesse, queste
esposizioni avevano anche sol, levato degli interrogativi riguardo alla
perdita, in Italia, della tra, dizione arazziera e alla scomparsa di
manifatture e maestranze. Le mostre resero evidente, nel confronto coti la
situazione d'oltralpe, l'assenza di iniziative italiane in questo settore,
ed è perciò che proprio nel 1953 il Ministero della Pubblica Istruzione
decise di istituire una scuola di arazzeria presso il laboratorio di Eroli a
Roma. A partire da tale data la scuola tenne dei corsi per circa un
decennio, ma dopo tale periodo fu costretta a cessare la propria attività.
Anche a Milano, nel 1957, venne
presentata alla Permanente una mostra di arazzi francesi contemporanei.
Nello stesso anno la galleria del Fiore di Milano, diretta da Luciano
Cassuto e legata all'attività del gruppo MAC, espose alla Triennale una
serie di opere tessute su cartoni di Aymone, Bordoni, Chighine, Dova,
Magnelli, Prampolini, Reggiani, Soldati e Sottsass jr. Gli arazzi erano
stati eseguiti dalla scuola di Esino Lario sotto la direzione del parroco
del paese, don Rocca, il quale aveva tentato di avviare un'attività
arazziera nel piccolo centro comasco. Successivamente la più impegnativa
realizzazione della scuola di Esino Lario fu un arazzo per la Leonardo da
Vinci: quest'opera, tratta da un cartone di Casorati, fu l'unico pannello
per quella nave che non venne eseguito dal laboratorio di Ugo Scassa. La possibilità di inserire arazzi nelle navi era stata quasi sicura mente suggerita ai progettisti dalle realizzazioni che Gustavo Pulitzer aveva fatto eseguire in anni precedenti: dopo il primo arazzo per il Conte di Savoia, tessuto nel 1932 da Maria Hannich su disegno di Campigli, intorno al 1950 l'architetto triestino incaricò dell'esecuzione di altri tre lavori la MITA di Genova-Nervi, azienda famosa per i bellissimi tessuti stampati su disegni di artisti locali.
GLI ARAZZI DI UGO SCASSA ESPOSTI A PALAZZO STROZZI A FIRENZE, NELLA MOSTRA ANTOLOGICA DI CAGLI
L'attività della galleria però non
proseguì a lungo, e alla fine Scassa rilevò la manifattura tessile di
Pinerolo dando vita poco dopo alla “Italia Disegno”, centro di produzione di
tappeti e manufatti d'arredamento. Con questo nome vennero firmati gli
arazzi eseguiti per la Leonardo da Vinci. La storia dell'attività arazziera
di Scassa inizia, quindi, nel momento dell'apice della navigazione
transoceanica italiana: al varo nel 196o della nuova ammira glia della
flotta italiana seguì di poco, nel 1963, quello delle gemelle Raffaello e
Michelangelo.
RAGAZZE AL TELAIO DURANTE LA TESSITURA DI UN ARAZZO NEL VECCHIO LABORATORIO, 1960
GLI ARAZZI PER LA LEONARDO DA VINCI
Nel progetto del Salone delle Feste
di prima classe della Leonardo da Vinci, che Monaco e Luccichenti avevano
realizzato con Millo Marchi, era stato previsto l'inserimento di sedici
arazzi, i cui cartoni furono eseguiti da artisti contemporanei gravitanti
nell'ambiente romano frequentato dagli architetti. La commissione artistica,
nominata dalla Società di Navigazione Italia e presieduta da Argan, ebbe il
compito di selezionare le opere e di scegliere il laboratorio cui affidare
l'incarico per la realizzazione degli arazzi. Ugo Scassa inviò un campione
di tessuto ad arazzo e vinse l'appalto. Scassa eseguì per la Leonardo da
Vinci sei arazzi di Cagli, uno di Bernini, tre di Corpora, uno di
Capogrossi, due di Santomaso e tre di Turcato. Fu questa per lui l'occasione
di iniziare un'importante attività come arazziere e una felice
collaborazione con Corrado Cagli, sodalizio che sarebbe proseguito fino al
1976, anno della morte dell'artista. Le vicende collegate alla realizzazione
delle opere d'arte per le navi coinvolgono i principali protagonisti della
scena artistica italiana e riflettono i dibattiti presenti nell'ambiente
culturale di allora e in particolare le polemiche sull'arte astratta, che in
Italia non erano ancora spente. L'eco di queste polemiche, come anche il
richiamo al dibattito sulla «sintesi delle arti», sono presenti anche nello
scritto di Argan posto in prefazione al testo di presentazione ufficiale del
transatlantico. Qui l'opportunità della scelta di opere non figurative venne
motivata con la considerazione che questo genere di lavori, per le loro
caratteristiche formali e la loro «alta qualità decorativa», erano adeguati
alla tipologia architettonica e funzionale di quegli ambienti, integrandosi
e interagendo con le strutture degli spazi interni.
D'altro canto, nella pubblicazione
della Società Italia gli arazzi erano presentati come opere «che evocano
decorativamente temi marini» o, come nel caso dei lavori di Cagli, che
richiamano «il senso del viaggio e dell'avventura». In effetti, il gruppo di
arazzi realizzati per la Leonardo da Vinci da Cagli presenta ancora dei
riferimenti figurativi: anche in questo caso la sua opera può essere
interpretata, nel senso sottolineato più volte dalla critica, come punto di
collegamento tra le esperienze del passato e le successive ricerche
aniconiche.
I sei cartoni che Cagli preparò
appositamente per questa occasione costituirono le prime esecuzioni di
arazzi dell'artista marchigiano; il soggetto, come frequentemente avviene
nei suoi lavori, non è astratto: parvenze di figure e ambienti vengono
sollecitate dall'accostamento dei frammenti decorati, con un controllo e una
composizione dei segni ottenuti con tecniche automatiche che ricorrono
costantemente nella sua attività nel secondo dopo guerra.
Queste composizioni appartengono
all'ambito delle opere di Cagli che in quel periodo manifestavano
un'attenzione sempre più forte verso le sperimentazioni con tecniche
grafiche e con materiali diversi. Come nella serie delle «Tavolette», in
questi lavori viene usato il frottage di matrice surrealista: ma
l'affollamento di segni, già denso in quella serie, nei cartoni per la
Leonardo da Vinci si contorce e si moltiplica per dar vita a composizioni di
grande ricchezza decorativa nell'uso acceso del colore e nell'arabesco dei
pattern. Le volute, le ruote stellate sono ricavate dal frottage
di pezzi di merletti (citazione tessile nel tessuto) che Cagli utilizzò
in quel giro d'anni anche in alcuni lavori a pastello («Gli Uccelli» del
195'7 e «Flora» del 1959) e in altre prove, come nel disegno per
il costume teatrale di «Lady Macbeth» del 1959. Anche in una serie di
poco precedente, gli «Arlecchini», il pittore aveva dispiegato tutta la
varietà del suo lessico decorativo; ma mentre in quel gruppo persisteva una
volontà di creare effetti di chiaroscuro e di rilevare le forme dal fondo,
addensando per sovrapposizione o velando la consistenza delle texture,
negli arazzi l'intera area è composta dall'accostamento di frammenti
diversamente decorati. Il risultato privo di valori di profondità,
l'esuberanza del colore e la ricchezza ornamentale evocano forme arcaiche di
etnie universali.
In alcuni pannelli tessuti, come «I
pescatori» o «Chimera», il patchwork grafico inventa e costruisce in
modo irregolare le forme delle figurazioni. In altri due arazzi la
superficie è ripartita in larghi tasselli geometrici che contengono gruppi o
figure: questa modalità ricorda alcune composizioni di Sironi che, pur con
sensibilità e motivazioni profondamente diverse da quelle di Cagli, muoveva
da un analogo interesse per l'arcaico.
Tra i pittori selezionati per ideare
gli arazzi della Leonardo da Vinci figurano alcuni dei nomi italiani più
rappresentativi dell'arte informale: Capogrossi, Corpora, Turcato,
Santomaso, erano artisti che nella loro produzione declinavano con
particolari accenti un linguaggio diffuso internazionalmente. Se la
trasposizione di un'opera pittorica in un tessuto ad arazzo ne enfatizza
l'aspetto decorativo, la realizzazione di arazzi da cartoni di opere
informali accentua maggiormente questa sottrazione di senso, quando la
memoria del gesto pittorico, della sua immanenza, si addomestica nella
paziente ricostruzione dell'evento, dell'istante, attraverso l'imitazione
dell'irregolarità accidentale.
Nelle opere di Turcato della prima
metà degli anni cinquanta, prove cui sono rapportabili i tre arazzi con la
sua firma, la traduzione con il mezzo tessile si adegua con maggiore
appropriatezza alle forme non disgregate del modello pittorico, più di
quanto non accada per gli impasti e per le modulazioni cromatiche di
Santomaso e di Corpora. Ciononostante, le mescolanze e le alternanze dei
fili di vario colore usate dall'arazziere hanno permesso di elaborare
variazioni timbriche e tonali che possiedono altrettanta ricchezza di
modulazione di quelle pittoriche.
Meno problematica è la traduzione
dell'opera di Capogrossi, in ragione della maggiore definizione del segno
che non tradisce slanci vitalistici e che si sviluppa sulla superficie
pittorica senza subire «alterazioni che non siano d'ordine strutturale». Il
suo grande arazzo declina il modulo ripetendolo sulla superficie con una
disposizione ordinata: gli elementi accoppiati simmetrica mente formano
delle nuove unità chiuse che stanno allineate in tutta l'area del tessuto.
Sul piano affollato di segni il colore non è ancora ridotto alle tinte
essenziali, come invece avviene nelle pro, ve pittoriche di quegli anni.
LA CERTOSA DI VALMANERA, SEDE ATTUALE DELL'ARAZZERIA
GLI ARAZZI PER LA MICHELANGELO E LA
RAFFAELLO
Dopo l'esperienza della Leonardo da
Vinci, l'idea di inserire de, gli arazzi fu ripresa anche dai progettisti
incaricati degli allestimenti interni degli altri due liners della
Società Italia, le turbonavi gemelle Raffaello e Michelangelo, che dal
1965 percorrevano la rotta Genova~New York. Un secondo grande arazzo di
Capogrossi fu tessuto dall'arazzeria Scassa per la Michelangelo, e venne
collocato al centro della parete della Sala di Soggiorno di prima classe
che, come il Salone delle Feste, era stata progettata dagli architetti
Monaco, Luccichenti e Zoncada. I primi due progettisti, già citati per la
realizzazione degli interni della Leonardo da Vinci, caratterizzavano con il
rigore e la sobrietà delle forme i loro interventi allestitivi, nei quali
sia la scelta che la collocazione delle opere erano fondamentali per la
connotazione dei locali. In questa occasione, ad esempio, al pannello di
Capogrossi furono intonati i colori dei rivestimenti, e le sue importanti
dimensioni impegnavano quasi interamente una parete del soggiorno, sorta di
punto di fuga visivo anche per il contiguo Salone delle Feste.
Se nella maggior parte dei pannelli
la ricerca punta sulla pluralità, su una ripetizione di segni che oscilla
tra calligrafia e decorazione, nell'arazzo di Bice Lazzari, che più di altri
ha legato le proprie esperienze di pittura pura a quelle di arte applicata,
le relazioni tra segno e spazio sono riportate ad una essenzialità, ad un
discorso sullo stesso procedere del segno. Il «recupero della primarietà del
gesto» che in molte esperienze di artisti dell'astrattismo «precede ogni
categoria della conoscenza», si costituisce invece per Lazzari come
premessa, come esperienza fondante del linguaggio, non atto fisiologico ma
atto conoscitivo.
Completano il gruppo di arazzi
astratti collocati nei locali di prima classe due opere di Vedova che si
trovavano nella veranda-bar. Queste due elaborazioni del pittore veneziano
appartengono al periodo in cui la sua pittura si libera dalla struttura
geometrica futurista e si avvicina alle forme dell'espressionismo astratto,
mantenendo la carica drammatica dei bianchi e dei neri delle tele precedenti
e manifestando una nuova energia e intensità emotiva nello slancio dei
segni. Questi sono «i veri protagonisti della sua pittura» che «entrano e
agiscono come dramatis personae» nello spazi o in cui Vedova si
muove. Con la trasposizione tessile di queste opere si ripropone come in
altri casi già descritti, ma con più evidenza, la trasformazione del loro
senso: per usare ancora le parole di Menna, lo spazio mentale, distrutto ma
conservato nella memoria dello spazio fisico del dipinto, con l'assenza
della «lotta corpo a corpo con la pittura» acquista un nuovo valore. La
nuova materia ottusa e densa e il suo lento accumularsi esprimono un tipo di
vitalità che è diversa e lontana dalla drammaticità dell'impulso vitale di
Vedova.
ALCUNE IMMAGINI DELLA SALA DI TESSITURA
CAGLI E L'ARAZZERIA SCASSA
La commissione degli arazzi per le
navi fu una meteora nel panorama degli incarichi pubblici ad un'arazzeria,
ma con questo episodio prese avvio un'attività che continua ancor oggi dopo
la realizzazione, da parte del laboratorio Scassa di Asti, di circa duecento
pannelli tessili. Il gruppo più cospicuo è costituito dal lavori tratti
dall'opera di Corrado Cagli che, dopo l'esperienza degli arazzi per le navi,
collaborò con continuità alla produzione dell'arazzeria, di cui fu per un
certo periodo anche il direttore artistico. L'esempio di Cagli è unico in
Italia, sia per il numero di arazzi trasposti da suoi lavori che per
l'attenzione e l'interesse che egli dedicò a questa tecnica. Il suo
avvicinamento all'arazzo manifestava la propensione mai abbandonata per la
pittura murale e per la sperimentazione con la materia. Ciononostante
l'artista marchigiano non fu in nessun modo un «peintre cartonnier», poiché
affidò alla sensibilità di Ugo Scassa le scelte per la trasposizione
tessile, in un rapporto dialettico e di intesa. Ben diversa era stata
l'esperienza di Lurçat e degli altri « peintres cartonniers», che aveva
portato a una drastica riduzione dell'area di competenza dell'artigiano: con
l'uso sistematico del cartone numerato, nel quale ai numeri segnati nelle
aree corrispondevano tonalità di filati già selezionati dall'artista, la
funzione del tessitore diventava meccanicamente esecutiva. Nell'arazzeria
Scassa, al contrario, non viene disegnato il cartone: le forme del bozzetto
dell'artista vengono riportate direttamente sull'ordito nelle misure
previste per l'arazzo, evitando così il passaggio intermedio di
ingrandimento del dipinto sul cartone. Le tessitrici operano, contrariamente
a quanto si usava comunemente nella lavorazione dei panni ad alto liccio,
sul diritto dell'arazzo, confrontando direttamente il lavoro dell'artista
con quanto vanno eseguendo.
Tra le riforme adottate da Lurçat si
devono citare, inoltre, il ricorso ad un numero molto ridotto di fili di
ordito e la sostituzione dei passaggi graduali cromatici con l'uso di
hachures e contrasti netti di colore. Questi fattori tecnici influiscono
notevolmente sulle caratteristiche formali delle opere tessili: costringendo
ad una forte semplificazione dei particolari essi conferiscono all’arazzo un
aspetto che Lurçat definì «rozzo e virile», accentuando nettamente la
diversità tra gli effetti ottenuti con il mezzo pittorico e quelli raggiunti
con la tessitura. Diversamente Ugo Scassa, in sintonia con la tradizione arazziera italiana, pur mantenendo l'identità e l'autonomia espressiva dei mezzi utilizzati, non ha rifiutato il rapporto dialettico con la pittura, puntando ad accentuare più che a ridurre le possibilità espressive degli intrecci e delle mescolanze cromatiche. Nella collaborazione tra Scassa e Cagli il lavoro comune e il riconoscimento reciproco delle abilità e dell'esperienza favorirono quei risultati qualitativi che valsero all'arazzeria di Asti la partecipazione alle principali esposizioni internazionali e la presenza nelle collezioni di importanti istituzioni.
Oltre ai sei arazzi per la Leonardo
da Vinci, tra il 196o e il 1976 furono tessuti più di cinquanta lavori
tratti da opere appartenenti a diversi momenti della produzione artistica di
Cagli. Ad eccezione dei primi sei, tutti gli altri pannelli sono perciò
trasposizioni di lavori dipinti in precedenza, individuati tra quelli che
nella nuova materia potessero acquistare una espressività propria. Ad
esempio l'arazzo «La caccia», tessuto per la prima volta nel 1967, fu tratto
dal dipinto del 1935 presentato l'anno seguente alla XX Biennale veneziana.
Gli spunti quattrocenteschi, il carattere nobile del soggetto e della sua
elaborazione, non privi di un lieve accento ironico, nella trasposizione
tessuta si arricchiscono di nuovi riferimenti storici, nella tradizione
dell'arazzeria antica. La ripresa di alcune opere appartenenti al ciclo
delle «Carte» tra cui «La Quena», «Agostino», «Danza Bassa», «Enigma del
gallo», «Salomone re», «Enigma di Febo» mise alla prova la perizia
dell'arazziere nel controllare le variazioni dei passaggi chiaroscurali e
cromatici tramite l'uso di fili di trama appaiati in diverse tonalità.
L'interesse particolare di questi pannelli tessili risiede nel ribaltamento
del rapporto di assimilazione tra immagine e materia presente nelle «Carte».
Come nelle opere informali, l'effetto di trompe-l'œil dell'arazzo non
rimanda a una realtà esterna all'opera ma alla realtà del modello pittorico,
dove però la consistenza della materia di cui esso è costituito, carta
spiegazzata, viene trasformata da Cagli in una immagine rivelatrice,
evocatrice di una realtà profonda e atemporale. L'immagine sembra affiorare
direttamente dal supporto, mentre l'uso del colore a spruzzo per rilevare il
chiaroscuro delle pieghe contribuisce a cancellare la parvenza del gesto,
l'espressione individuale. Soffiando il colore, tuttavia, Cagli compie con
uno strumento moderno un'operazione antichissima, riportando così
l'archetipo anche nella poiesi. E come l'atto di soffiare il colore è una
delle prime azioni artistiche dell'umanità, anche il tessere fa parte di
quelle attività altamente simboliche legate alla vita umana e delle
collettività.
Nell'opera del pittore marchigiano
ricorrono insistentemente rimandi alla tessitura, nel trattamento della
superficie grafica e pittorica, e riferimenti al senso della decorazione per
le culture originarie. Anche la tecnica e il momento di realizzazione
dell'opera sono perciò parte di quello scavo nell'archetipo che è centrale
nella produzione e nel pensiero dell'artista, per il quale il momento
riflessivo, intellettivo, non è mai disgiunto da quello poietico.
TRA ROMA E TORINO: PITTORI
CONTEMPORANEI E ARAZZI
In analoga direzione era orientata
la ricerca di Mirko che, come altri pittori quali Clerici, Guttuso e
Avenali, era stato coinvolto da Cagli nell'interesse per i panni tessuti.
Figure della mitologia orientale sono ricorrenti nella produzione plastica e
pittorica dell'artista, che anche negli arazzi, come in «Gildamesh» e
«Guerrieri» del 1961, in «Sacerdoti» del 1962 e in «Danzatrice giavanese»
del 1974. , ricorre a questa suggestione immaginativa. La sollecitazione
magica e fabulistica presente nell'opera di Mirko si sostanzia in questi
tessuti, nei quali la preziosità materica e cromatica supera quella delle
tempere su carta da cui sono tratti. Anche in «Leone e Chimera», arazzi di
Fabrizio Clerici, il primo eseguito nel 1961 e il secondo nel 1962, la
rappresentazione dei due animali mitologici manifesta la loro potenza
simbolica. In questo caso le figure, libere dalle complesse impalcature che
spesso costituiscono la messa in scena dei dipinti di Clerici, si stagliano
sullo sfondo come in due stendardi. Nel pannello «La chimera» linee falcate
fanno apparire il mostro in forma di scheletro; nell'arazzo «Leone» il corpo
campeggia sulla tela come un sole araldico, definito da un segno corroso
dalla luce che ne rileva le forme dal colore del fondo.
In opposta direzione si collocano i
tre arazzi ripresi da opere di Guttuso, «Bosco a Velate», «Pergolato» e
«Prato d'autunno», nei quali il trattamento dei soggetti diventa occasione
per dispiegare sull'intera superficie un'immagine decorativamente
rigogliosa. Come nel caso di «Bosco a Velate», in cui l'intera area tessuta
è modulata dal fogliame e dalla copertura del tetto che rivestono
completamente l'arazzo. I colori intensi distinguono pochi livelli di
profondità perché lo sguardo è vicino alle cose, dentro la natura. Non sono
raffigurati paesaggi in questi arazzi, ma tratti di una natura resa
familiare dalla necessità‑e dalla consuetudine.
Come è stato più volte sottolineato,
la tensione ideale verso il muralismo accompagnò tutto il percorso
dell'attività di Cagli. Un analogo orientamento portò anche altri artisti ad
occuparsi di arazzi: tra questi Marcello Avenali, pittore che fornì a Scassa
quattro soggetti: «Crocifissione» del 1963, «Piazza Navona», «Fontana
dell'Acqua Paola al Gianicolo» del 1965 e «Bolla del Banco di S. Spirito»
del 1966, per trarne dei pannelli. Altro interesse che agì da stimolo nella
realizzazione di opere tessili, in Avenali come in Cagli, fu la passione per
la sperimentazione con le tecniche. Nell'artista romano questa propensione
si era espressa anche nelle diverse opere monumentali che fu chiamato ad
eseguire: l'affresco nella cappella di Pio XII della chiesa di Sant'Eugenio
a Roma, il mosaico per la delegazione apostolica di Washington, la vetrata
«scultorea» nella chiesa dell'autostrada del Sole progettata da Michelucci.
In un lungo arco di tempo artisti di
diversa formazione condivisero l'aspirazione ad intervenire con le loro
opere in ambienti pubblici, in rapporto con l'architettura, lo spazio, la
collettività. Umberto Mastroianni fu tra questi, come appare dalle sue
stesse parole: «Il problema monumentale ha sempre affascinato la mia
fantasia. Il problema intimista, non creativo, mi ha sempre lasciato
indifferente».
Egli fu anche tra coloro che,
recependo le sollecitazioni delle tendenze astrattiste, tentarono nel
secondo dopoguerra di imprimere una svolta nell'ambiente culturale torinese.
Nei pannelli che l'arazzeria di Asti eseguì da sue opere nell'arco di quasi
vent'anni a partire dal 1963, è evidente una forte affinità di superficie
con i suoi lavori su cartone, nei quali la texture del supporto
conferisce matericità alla pittura. E la materia, uno dei nodi centrali
nella poetica di Mastroianni, è la sostanza in trasformazione, mutamento
fissato nelle macchie di colore degli arazzi «Cavalcata» e «Corrida»,
entrambi del 1966. La materia scura e luminosa dei fili si presta
alle deflagrazioni chiaroscurali che in anni successivi si illumineranno di
bagliori d'oro, mentre in opere più tarde, come ad esempio «Eurinome»,
l'immagine si struttura in un incastro di forme.
Mastroianni era stato introdotto
bell'ambiente torinese da Luigi Spazzapan, artista che è stato descritto
come « il personaggio che nello scorcio degli anni quaranta rappresenta per
la Torino artistica il punto di riferimento emblematico di un atteggiamento
di libertà di ricerca e di insofferenza per "l'ordine costituito ».
Spazzapan, con Mastroianni, Sottsass jr., Moreni, Navarro e Bargis, nel
1947 fece parte del comitato promotore dell'esposizione «Arte italiana
d'oggi», un'iniziativa molto contestata con la quale si cercò di rinnovare
il corso artistico torinese inserendolo nel quadro di nuove forze e nuove
correnti operanti in Italia, interpretate in particolare dal Fronte nuovo
delle arti.
L'artista di origine goriziana, a
partire dalla formazione futurista nel capoluogo giuliano e attraverso un
percorso di figurazione, giunse a sperimentare, tramite le suggestioni
dell'Informale, 1'eliminazione di ogni elemento naturale. Poco prima della
morte, avvenuta nel 1958, Spazzapan aveva frequentato assiduamente la
galleria il Prisma, entrando in contatto con Ugo Scassa. Da alcune delle
ultime prove, nelle quali il pittore, pur conservando una struttura
compositiva, disponeva liberamente sulla superficie le colate, gli
agglomerati di colori accesi o aggregava forme geometriche, furono tratti
sette pannelli tessuti.
Opere di molti altri pittori,
espressioni di diverse poetiche e di diversi linguaggi, sono state tradotte
ad arazzo dal laboratorio di Asti. Quelle sin qui descritte appartengono in
larga parte ad aree di indagine sul segno e sulla materia soprattutto perché
l'attività dell'arazzeria Scassa si affermò nel periodo di massima
dilatazione di queste ricerche. È importante notare che in Italia un
interesse più vivo per l'arte dei panni tessuti si concretizzò proprio in
questo momento: negli arazzi tratti da dipinti realizzati tra gli anni
cinquanta e settanta c'è un'assenza quasi completa di racconto e di
figurazione e un abbandono della iniziale tensione verso il monumentalismo.
Ma proprio tali caratteristiche hanno fatto di questi lavori delle opere
pienamente inserite nella cultura del nostro tempo e in sintonia con le
forme contemporanee dell'architettura. Questi arazzi non sono copie di dipinti, mali interpretano, li rileggono, riconsegnando un'immagine che non è uguale al modello ma da quello ha origine e a quello è raffrontata. È per questo motivo che nell'arazzo del 1971, tratto da un'opera di Cagli, la figura del giovane Narciso che osserva la sua immagine restituita dall'acqua può esprimere emblematicamente il rapporto tra pittura ed arazzo. |